Come interpretare la realtà multiculturale presente nella nostra nazione e, ormai da alcuni anni, anche nelle nostre comunità di vita religiosa?
Siamo di fronte alla sfida sociale della internazionalizzazione che l’Italia (come gran parte dell’Europa) sta vivendo in modo sempre più stringente.
Forse la vita religiosa può dire e insegnare qualcosa ad un’epoca che sta cambiando. Anzi, possiamo addirittura affermare che la vita consacrata contemporanea è chiamata ad offrire al mondo modelli nuovi di convivenza in una realtà multiculturale nella dimensione del dialogo e dell’arricchimento reciproco.
È questo il tema affrontato durante il nostro incontro nella casa di formazione a Torino. Insieme a Padre Maurizio Bevilacqua dei Claretiani ci siamo poste la stessa domanda iniziale e abbiamo fatto alcune considerazioni utili per prendere coscienza di una trasformazione che è già in atto nelle congregazioni religiose presenti da decenni in terra di missione e che vivono l’esperienza della comunione di vita con molte culture provenienti dalle più diverse parti del mondo.
Occorre domandarsi quali atteggiamenti si possono assumere di fronte alla diversità dell’altro che vive con me. Si tratta di differenze culturali, linguistiche, di usanze e tradizioni, ma anche somatiche e di specifiche storie personali che ciascuno porta dentro di sé come peculiarità individuali.
Non basta un semplice atteggiamento di tolleranza minimalista che si limita a constatare la diversità, così come non è ammissibile la posizione di chi si rifiuta di considerare l’altro come diverso costringendolo ad adeguarsi alla cultura della nazione ospitante e perpetuando il paradigma eurocentrista che considera superiore e dominante la cultura nordoccidentale.
Il cardinal Martini parlava di “fermentazione reciproca”, ossia di effettiva apertura e ascolto delle differenze per trarre da esse un vero e proprio arricchimento.
Anche al n. 40 del recente documento per la vita consacrata – Per vino nuovo otri nuovi – emerge come <<I processi di internazionalizzazione dovrebbero impegnare tutti gli Istituti (maschili e femminili) a diventare laboratori di ospitalità solidale dove sensibilità e culture diverse possono acquisire forza e significati non conosciuti altrove e quindi altamente profetici>>.
Le nostre comunità religiose siano allora delle officine di comunione interculturale, modelli di reciproca valorizzazione e accoglienza <<[…] perché tutti possano convertirsi al Vangelo senza rinunciare alla propria particolarità>> come esorta il documento.
Non si tratta di un’attenzione folkloristica alle tradizioni, ma di un serio ascolto delle ricchezze che scaturiscono da una comune natura umana e personale.
Del resto dobbiamo prendere coscienza che molti aspetti della nostra cultura italiana, ma così per ogni altra nel mondo, derivano da incontri storici con altri popoli che sono arrivati fino a noi nel corso dei secoli. Pensiamo alle influenze linguistiche che caratterizzano l’idioma italiano, o ancora al cibo e a come è cambiata l’alimentazione della nostra penisola in seguito alla scoperta dell’America e ancor prima attraverso il commercio con l’Oriente asiatico. Se facciamo attenzione scorgiamo dentro ad ogni nostra tradizione una commistione armonica di tanti elementi interculturali che lentamente hanno cambiato i nostri stili di vita e la nostra visione del mondo. E oggi più che mai il mix di culture diventa sempre più immediato e foriero di cambiamenti repentini dovuto alla globalizzazione e alla facilità di scambi e trasferimenti.
La storia quindi ci insegna in primis a vivere la multiculturalità come un valore e una risorsa preziosa. E sorprende come la saggezza africana utilizzi un vocabolo semplice come “Ubuntu” per indicare la fede in un legame universale di scambio che unisce l’intera umanità; un legame quindi che sta a fondamento di ogni reciprocità.
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